Incontro con due immagini del Signore Gesù Crocifisso

 

Il crocifisso di San Damiano, ora in Santa Chiara in Assisi
Il crocefisso di Giunta Pisano, ora nel Museo della Porziuncola a Santa Maria degli Angeli

(Meditazione 2006)

 

Queste due immagini splendide possono sembrare contrapposte, anche se non come tante altre: come sempre in profondità lo sono meno di quanto appare, esprimono continuità e discontinuità insieme.

Possiamo però chiederci, come mai questa diversità legata ad una medesima spiritualità, allo stesso santo, nello stesso luogo (Assisi)? Che cosa li distingue? Quali messaggi diversi possono dare? A quale tipo di Crocifisso può essere meglio collegata la capacità di Francesco di leggere gli eventi con il principio della “perfetta letizia”? 

Potremmo cercare una risposta oggettiva nella vicenda vissuta da Francesco e dai suoi seguaci, ma occorrerebbe essere esperti francescani, possiamo allora porci la domanda in chiave esperienziale,:soggettiva

Quale delle due immagini mi è più congeniale?
Mi viene spontanea una risposta a livello esistenziale o semplicemente di contenuto di fede?
Fissiamo lo sguardo sui volti… 

C’è qualcosa che tocca il mio rapportarmi a Cristo?
Che cosa confermano? Che cosa scuotono? Quali interrogativi mi pongono?
Facciamo un momento di silenzio, di osservazione, di interiorizzazione di queste immagini, di questi volti.

Qualcuno/a sarà subito ben deciso/a, e saprà dirsi “il mio Cristo è questo”: può alzarsi e portare l’immagine corrispondente che ha in mano sotto il poster che rappresenta per intero il Crocefisso scelto. Qualcuno avrà bisogno di un po’ più di tempo.

Facciamo un po’ un sondaggio: quale sarà il più votato?

Subito dopo chi vuole può dire una sua impressione, una osservazione, una sua esperienza, porre un interrogativo. 

Osservazioni particolari

I due crocifissi sottolineano cose diverse ma con molto equilibrio:

  • Quello con gli occhi aperti rimanda al mistero di un crocifisso “vivo”, al mistero del Vivente che offre la vita come uno che ne è padrone; lo sguardo immobile sembra guardare altrove “ Il Signore ha il trono nei cieli. I suoi occhi sono aperti sul mondo, le sue pupille scrutano ogni uomo” (Sl 11,4); le braccia sono distese nell’atto di chiamare-accogliere tutti a sé. L’intera chiesa celeste e terrena è presente attorno a lui.
  • Quello con gli occhi chiusi pare come uno che riposa (sabato santo), dice il mistero del Signore che muore, ma crea una attesa, una sospensione (non tutto è finito); le braccia sembrano reggere a fatica il peso-sofferenza prima della morte. Solo alcune presenze partecipano alla sofferenza.

Qualche sottolineatura più in generale

Occorre diventare più consapevoli del come nei secoli si manifesta la fede cristiana. Anche qui delle domande: Quale segno ha caratterizzato e distingue anche ora i cristiani?  

La croce o il crocifisso? E quale croce? quale crocifisso?

A volte ci chiediamo quale immagine di Dio abbiamo, più difficilmente ce lo chiediamo a riguardo del Crocefisso, dando per scontato quello a cui siamo abituati (ma gli altri, quelli che non credono o hanno altra fede ci interrogano) o come se tutti mandassero lo stesso messaggio. 

Nei primi secoli del Cristianesimo non ci sono rappresentazioni del Crocifisso, si usano simboli quali il pesce, l’ancora, l’Agnello (cf. sacrifici A.T.), il solo monogramma di Cristo (JHS = Gesù salvatore degli uomini). Quando si comincia ad usare la croce (non il crocifisso!) sono le sue forme: tau, greca, latina …. e molte sono gemmate. Va ricordato che essa ha un valore simbolico universale, (col cerchio, senza cerchio) ben precedente il cristianesimo a riguardo della mediazione

(due direzioni, figura umana con le braccia aperte, il 4, il 5, quale rappresentazione del mondo, unità di estremi, ansata nel mondo egizio come segno della vita). Come tale resta segno ambiguo, e anche nel cristianesimo può diventare ornamento, apparenza, segno di dominio, l’opposto del Vangelo!
Solo la croce abitata, il crocefisso, diventa termine di confronto evangelico, richiamo al mistero dell’incarnazione del Signore e del suo stile di vita, del suo assumere in toto la vita umana e del suo fare della fragilità, della discesa una ascesa.

Occorre però arrivare al VII secolo perché la Chiesa decida che Cristo non va rappresentato solo con un simbolo, ma come uomo. Comunque nelle più antiche rappresentazioni (VI- IX, anche se ve ne è qualcuna che precede) Gesù viene rappresentato sulla croce in posizione retta e vivo (occhi aperti) e spesso vestito di una tunica corta o con un perizoma che ha però lo stesso significato di veste sacerdotale e regale (cf. A.T.; cf. Davide); non ha la corona di spine ma una corona di gloria: la croce è trono e il Cristo è il Signore vittorioso, Sommo Sacerdote e Re.

La croce come strumento di morte vergognosa e la nudità che essa comportava faceva problema, e di fatto la fede cristiana non è solo legata a un morto nell’ignominia, ma ad uno che ha vinto la morte e ha trasformato l’ignominia in vittoria sul male. Dobbiamo tenerlo ben presente altrimenti la croce fa problema ed è normale che sia così: un morto di una morte straziante che speranza può dare, come può sostenere un cammino umano ascendente, senza essere frenati dalla fragilità, dalla caducità, dalla disperazione?

Noi diamo un po’ troppo per scontato che ogni croce, ogni crocjfisso rimandi al mistero pasquale nella sua interezza, a volte invece esprimono sola la disperazione umana, la disumanità, la non salvezza, se colui che vi è appeso non è il Figlio di Dio: se non vi si esprime “la passione” di Dio per e con l’uomo, non resta che il dolore e il male.

Paolo ricordava: la Croce è stoltezza e scandalo ( lCor 1,18): “La parola della croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio”( “e sapienza di Dio” v.24), “Mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani”(v.22-23) ma ancora aggiungeva: “Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”( v.25);“Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti…” (v.27s). Paolo è ben consapevole di testimoniare in debolezza, ma con la conoscenza esperita personalmente di Gesù Cristo Risorto benché Crocifisso. Pur non avendo partecipato all’evento storico della Crocifissione, Paolo ha incontrato il Risorto Crocifisso, certo crocifisso anche nei suoi seguaci, ma è Gesù che si identifica con loro, Paolo ha incontrato lui, la luce, che dice “Io sono Gesù / Dio salva” con tutto quello che poteva evocare a un ebreo (cf At 9,5s).

Senza la resurrezione la nostra fede (e quindi la croce) è vana (1Cor 15,14), non sostiene la speranza, che è nel fondo dei nostri cuori, di restare vivi oltre la morte e che è la buona novella cristiana. Era questa fede che sosteneva i Padri del deserto ( Cito loro- SantAntonio Abate pare usasse il Tau – ma potrei citare qualsiasi altro santo famoso o meno) nella fatica di portare la croce che era per loro la lotta contro le tentazioni, il riconoscersi peccatori di fronte al Vivente che, innocente, per amore loro, era morto in croce; il loro piangere i propri peccati non era un guardarsi

l’ombelico, un piangere sulla propria debolezza, ma era aprire le porte del cuore perché la novità portata dal Risorto potesse rigenerarli interamente, trasfigurarli, riportarli ad immagine e somiglianza del Creatore. I Padri avevano cosi chiara la potenza del mistero pasquale, che tutte le loro energie erano impiegate a riuscire a vivere da risorti, con gli stessi sentimenti di Cristo, sapendo che tutta la salvezza viene da lui e che la parte dell’uomo è la fatica di aprire il cuore ad accoglierla. Essi avevano una visione teologale della vita credente, non semplicemente devota…. Non si tratta di misurare le sofferenze del Signore, ma di cogliere perché e come lui le ha vissute, di conformarsi al suo stile: “Si tratta di vivere la differenza cristiana in modo che appaia nella storia un riflesso del volto misericordioso del Signore; e la sofferenza – debolezza, fragilità – che questo stile di vita può implicare è grazia per chi sa riconoscere che è quanto ha vissuto il Signore.” ( E. Bianchi)

Questo Paolo ce lo mette davanti nella lettera ai Filippesi, cap 1,27-30 “Soltanto però comportatevi da cittadini degni del vangelo, perché nel caso che io venga e vi veda o che di lontano senta parlare di voi, sappia che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del vangelo, senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo è per loro un presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio; perché a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo; ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e che ora sentite dire che io sostengo.”

Paolo si preoccupa che i cristiani, in qualità di cittadini, abitanti della propria realtà, della propria epoca, abbiano un comportamento degno dell’Evangelo,e che questo sia guida e fondamento del loro agire (nella 1 Pietro si parla di opere belle, tali che i pagani vedendole glorifichino Dio): vivere da cristiani è assumere uno stile diverso da altri, non solo singolarmente ma comunitariamente, senza ostilità o scontro con altri stili, anzi con simpatia, ma senza mimetizzarsi. Non c’è nulla di volontaristico in questo, ma tutto è dono di grazia nella debolezza: la vita umana va vissuta così, come ci è data, in pienezza, ma seguendo il Signore Gesù.

Nelle opere? Innanzi tutto nei desideri, nei sentimenti, nel come porsi in relazione!

Ancora Paolo dice: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,

il quale, pur essendo di natura divina, 
non considerò un tesoro geloso 
la sua uguaglianza con Dio; 
ma spogliò se stesso, 
assumendo la condizione di servo 
e divenendo simile agli uomini; 
apparso in forma umana, 
umiliò se stesso 
facendosi obbediente fino alla morte 
e alla morte di croce. 
Per questo Dio l’ha esaltato 
e gli ha dato il nome 
che è al di sopra di ogni altro nome; 
perché nel nome di Gesù 
ogni ginocchio si pieghi 
nei cieli, sulla terra e sotto terra; 
e ogni lingua proclami 
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre. (Fil 2,5-11)

Senza la speranza della gloria con Lui è impossibile avere una costanza di stile “buono e bello”, una speranza salda, certa che, anche nella storia, il bene vince sul male al di là delle apparenze. Non bisogna trasferirsi nei cieli, è qui sulla terra che possiamo ripercorre la strada che il Signore ha tracciato.

Nel XI secolo a Bisanzio stessa si sente il bisogno di sottolineare che Gesù è vero uomo e allora comincia la rappresentazione del crocifisso denudato, morto, col capo reclinato e il corpo arcuato e infine con la corona di spine, un unico chiodo per i piedi. In occidente nel XIII sec. la rappresentazione diviene sempre più realistica e cruda (un esempio è il crocifisso attualmente all’ingresso di San Damiano). Nella rappresentazione naturalistica si percepisce di più il prezzo pagato dal Signore Gesù, la sua solidarietà con l’uomo, con i più poveri. Si può essere aiutati a contemplare il Signore Gesù, dimenticandosi, uscendo da se stessi per comprendere l’amore, la bellezza del suo amore, ma il rischio è perdere il valore teologico e quindi la portata di grazia della prova: invece della affermazione di fede “oggettiva”, si rischia di semplicemente commuoversi, forse anche coinvolgendosi in una relazione col Signore o con gli ultimi nella storia, ma mettendo come tra parentesi quella speranza di vita eterna senza la quale la fede cristiana diventa altro.

Contemplare il crocifisso, immergersi nei misteri della passione è ciò che hanno fatto tutti i santi, ma mai dimenticando di avere davanti il Figlio di Dio, di stare contemplando una rivelazione del modo di essere di Dio, della “passione” (col doppio significato di questa parola “desiderio intenso e soffrire”) di Dio stesso (cf. il Crocifisso di Semitecolo a Padova in cui gli stessi chiodi trapassano le mani del Figlio e del Padre; la Trinità di Masaccio a Firenze).

Occorre non dimenticare mai che quell’uomo crocifisso ( oggi ci sono tanti umani forse in condizioni anche peggiori!!!) è Dio: come quando diciamo che l’uomo è un animale, non dobbiamo dimenticare che è così, ma che l’uomo è molto di più. Ridurre, svuotare tendere al basso è sempre una grande tentazione, ma l’avventura umana perde senso, speranza, motivazioni. Certo anche tendere troppo in alto è rischioso, si lascia il Signore nell’alto dei cieli, si trasforma l’uomo in Dio, ma poi la vita, nella sua concretezza, obbliga prima o poi a ridimensionarsi, mette di fronte all’impotenza: si può ritrovare una misura, ma risalire dal vuoto è davvero più faticoso.

Il Cristo Crocifisso e Risorto o meglio il Risorto Crocifisso non è solo il cuore della nostra fede, ma è il centro del nostro esistere.

“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32) (anche qui vedete la diversità tra i due crocifissi: in Giunta Pisano due sole figure “commosse”, in quello di San Damiano è la chiesa intera terrena e celeste che viene raffigurata ). In questo “attirare” c’è un far convergere, unificare persone, energie ma anche un attivare, dare slancio, senso, verità, stabilità, un provocare, appassionare, orientare, esigere.

Cristo “elevato” attrae ed è attraente, unificato unifica… Cristo Risorto Crocifisso diviene il criterio di lettura della propria vita, un senso da cogliere già insito, presente e un senso da dare di fronte ad alcuni eventi. Il richiamo all’evento storico e il simbolo devono restare connessi: ci possono essere
sottolineature diverse, ma mai si può separare il Crocifisso dal Risorto o il Risorto dal Crocifisso, mai si deve separare la debolezza dall’ascesa o l’ascesa dalla debolezza: questo sarebbe irrealistico, l’altro limitante, deprimente.

Il risorto è Crocifisso, l’ascesa è nella debolezza: il debole ascende, è salvato, non nonostante la debolezza, ma per la sua stessa debolezza, nel modo di assumerla. Un po’ tutti i santi sono memoria vivente del Crocefisso, o meglio del legame stretto tra la memoria della croce, il primato della Parola e i poveri, mentre noi rischiamo di rifarci alla cultura, ai riti, alle tradizioni intoccabili. Non è solo Francesco che approda anche visivamente ad essere alter Christus , ma anche testimoni come Charles de Foucauld, fratel Carlo e fratel Ermete che hanno vissuto il mistero della croce nel ricercare il nascondimento di Nazaret, anche pastori come Dietrich Bonhoeffer e l’elenco deve includere tanti santi anonimi!.

Il Crocefisso diventa proclamazione di fede concreta quando non dice solo regalità o solo sofferenza: esso sta a dire che è dentro la vita umana in tutte le sue sfaccettare di gloria e di abisso che va vissuta la speranza cristiana: la redenzione è già operante, anche se resta l’oscurità, interrotta solo da barlumi che ci raggiungono.

Gesù con la morte in croce ha accettato la più completa solidarietà con gli uomini peccatori (fu annoverato tra i malfattori Lc 22,37; fatto peccato per noi 2 Cor 5,21; divenuto per noi maledizione Gal 3,13), fino a vivere l’abbandono del Padre, a provare la sete del Dio vivente (Gv 19,28 che rimanda al Sl 42,3). Gesù ha abbattuto ogni separazione: nella sofferenza (ma anche nella gioia se si vive in profondità, in pienezza) cade ogni distinzione anche tra la debolezza e la grazia.

Gesù con la morte in croce ha rivelato in pienezza che Dio è amore, ma anche che l’uomo, non solo è amato, è capace di amare.

“La morte di Gesù in Croce è un evento determinato unicamente dall’amore, come una scelta libera fatta in forza dell’amore di Dio per l’umanità intera. Dunque la croce racconta all’uomo la grandezza senza confini dell’amore dell’Eterno e dona al singolo la certezza radicale di essere amato, e non in modo qualsiasi e in tempo limitato, ma da sempre e per sempre, perché l’amante è Dio. Dunque la croce consola, proprio perché dà questa certezza. Ma al tempo stesso provoca. Ovvero dà l’altra certezza: quella di essere capaci di amare. E non in un modo qualsiasi, ma con la stessa benevolenza, intensità di amore, libertà interiore… .del Crocifisso stesso. Dio ci ha amati fino a questo punto, tanto da renderci capaci di amare come lui! Siamo quindi stati salvati dall’egocentrismo, dall’incapacità di amare, da ogni atteggiamento eccentrico, scentrato, obsoleto, dalla ricerca smodata e disperata di amore, dalla paura di essere benvoluti, dalla pretesa di meritare l’amore, dallo squilibrio tra l’urgenza di ricevere e la libertà di dare…. Poiché nulla come la croce apre all’alterità e alla fecondità della relazione ( le due caratteristiche della sessualità) perché l’amore ha una struttura pasquale e il corpo umano è vero, e non mente, solo quando esiste nella forma del dono. (A.Cencini, Il cuore del mondo).

La debolezza rende fecondo il dono che abbiamo, così come la buccia del seme, divenendo fragile, rende possibile la fecondità del seme, così come la impotenza del Crocefisso permette all’Amore di Dio di manifestarsi in pienezza, alla Gloria divina di invaderci, alla presenza di Dio di abbracciare tutto l’umano, tutto il terreno. E il dono più importante che ci abita non è sempre qualcosa di deciso, voluto, pensato… a volte è il proprio esserci (“benedetto sii tu Signore perché mi hai creata” celebrava S. Chiara!), è dono la propria vita assunta con semplicità con i suoi limiti, le sue povertà, i suoi errori, vissuta con l’aiuto di fratelli e sorelle che di essi sanno fare tesoro a volte più che dei nostri grandi doni. Noi con le nostre povertà consoliamo, guariamo, facciamo uscire dall’egoismo, facciamo nascere fiori!

Concludo con una storia: così come mi è arrivata, ve la dono:

L’Anfora

Ogni giorno, un contadino portava l’acqua dalla sorgente al villaggio in duegrosse anfore che legava sulla groppa dell’asino, che gli trotterellava accanto. Una delle anfore, vecchia e piena di fessure, durante il viaggio, perdeva acqua. L’altra, nuova e perfetta, conservava tutto il contenuto senza perderne neppure una goccia.

 

L’anfora vecchia e screpolata si sentiva umiliata e inutile, tanto più che l’anfora nuova non perdeva l’occasione di far notare la sua perfezione: «Non perdo neanche una stilla d’acqua, io». Un mattino, la vecchia anfora si confidò con il padrone: «Lo sai, sono cosciente dei miei limiti. Sprechi tempo, fatica e soldi per colpa mia. Quando arriviamo al villaggio io sono mezza vuota. Perdona la mia debolezza e le mie ferite».

Il giorno dopo, durante il viaggio, il padrone si rivolse all’anfora screpolata e le disse: «Guarda il bordo della strada». «E’ bellissimo, pieno di fiori». «Solo grazie a te» disse il padrone. «Sei tu che ogni giorno innaffi il bordo della strada. lo ho comprato un pacchetto di semi di fiori e li ho seminati lungo la strada, e senza saperlo e senza volerlo, tu li innaffi ogni giorno».

Siamo tutti pieni di ferite e screpolature ma, se lo vogliamo, Dio sa fare meraviglie con le nostre imperfezioni.

Con un altro linguaggio non dice cose molto diverse D.BONHOEFFER:

Così il nostro diventar adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15,34)! lI Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo. Davanti e con Dio viviamo senza Dio. Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. E assolutamente evidente, in Mt 8,17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare. In questo senso si può dire che la descritta evoluzione verso la maggior età del mondo, con la quale si fa piazza pulita di una falsa immagine di Dio, apra lo sguardo verso il Dio della Bibbia, che ottiene potenza e spazio nel mondo grazie alla sua impotenza. ( Resistenza e Resa, Paoline 1988,p.440)

La speranza cristiana della resurrezione si distingue da quelle mitologiche per il fatto che essa rinvia gli uomini alla loro vita sulla terra in modo del tutto nuovo e ancora più forte che nell’Antico Testamento. Il cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo («mio Dio, perché mi hai abbandonato?») e solo così facendo il crocifisso e risorto è con lui ed egli è crocifisso e risorto con Cristo. L’aldiquà non deve essere soppresso prematuramente. In questo, Nuovo e Antico Testamento restano concordi. I miti della redenzione nascono dalle esperienze umane del limite. Cristo invece afferra l’uomo al centro della sua vita. (ivi,p 412)

 

Preghiera di Francesco davanti al Crocefisso:

O alto e glorioso Dio,
illumina le tenebre
del cuore mio.

Dammi una fede retta,
speranza certa,
carità perfetta
e umiltà profonda.

Dammi, Signore,
senno e discernimento
per compiere la tua vera
e santa volontà. Amen.