Amico nel Vangelo di  Matteo

 

Abituata a gustare il modo di relazionarsi del Signore Gesù, confesso che non avevo mai rilevato che  Matteo usa, lui solo, un termine che viene tradotto “amico” (etairos), ma che nel contesto ne rivela tutta l’ambiguità, svelando che  chi pronuncia la parola ha sentimenti amicali che mancano a colui che come tale viene chiamato.

Matteo usa questa parola tre volte: Mt 20,13; 22,12;26.50.

Le prime due citazioni sono all’interno di parabole con protagonista il padrone/re che si comporta come il Signore, la terza è in bocca a Gesù.

Nella parabola, propria di Matteo, dei chiamati ad operare nella vigna ad ore diverse, “amico” è in bocca al padrone che si rivolge ad uno per tutti gli operai della prima ora che erano stati più a lungo (il dono più grande!) con lui nella vigna, ma mormoravano contro di lui, delusi, perché il vedere dare ad altri, chiamati più tardi, la stessa somma concordata con loro sembrava  ingiusto. Il padrone fa notare che non lo è, perché è libero di usare del suo come crede e che dietro la scontentezza loro c’è il non saper guardare positivamente alla sua bontà e il non gustare il lavoro con/per lui.

Matteo in 19,17 aveva ricordato che “Buono è uno solo” facilitando a noi il vedere nel padrone il Signore libero di fare i suoi doni ad alcuni senza far mancare nulla agli altri: in chiave escatologica libero lui di accogliere nel regno gli ultimi, qualunque sia la connotazione che possiamo dare al termine, ma i primi non si sentirebbero defraudati,  se avessero goduto della sua presenza  e del lavorare per un padrone buono.  Se conta solo il denaro e il confronto resta solo l’invidia, lo sguardo non buono.

Nella parabola del banchetto nunziale, a cui i primi invitati rifiutano di andare, vengono chiamati, buoni e cattivi, che sono per le  strade, ma il re, che aveva voluto il banchetto per le nozze del figlio, scorge tra i presenti  uno che non indossa l’abito nuziale  e allora gli si rivolge “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nunziale?”. Lo chiama amico perché non ha rifiutato l’invito, ma poi lo condanna perché non ha dato il giusto valore ad esso: in chiave escatologica c’è un richiamo alla importanza della risposta responsabile, e non superficiale, per entrare nel Regno (cf la parabola dei due figli Mt 21,28s).

In Luca, nel testo parallelo, viene specificato che per le strade sono chiamati gli ultimi, poveri, storpi, ciechi e zoppi, ed altri costretti per riempire la casa senza nessuno dei primi invitati che trovano scuse per non andare: gli esclusi sono questi, mentre solo in Matteo è sottolineato l’atteggiamento inadeguato del singolo. In Luca resta più lontana la prospettiva escatologica di giudizio su ciascuno.

 

Quando poi si tratta di Giuda è importante rilevare che Matteo fa dire a Gesù  “Amico, per questo sei qui!  E io direi che in fondo l’espressione lucana, nel medesimo contesto di tradimento, sia esso per delusione o provocazione, “Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell’uomo?” con l’uso del nome proprio del discepolo è più densa di carica relazionale che non quel “Amico” che indica come nei casi precedenti più la distanza che la vicinanza. Gesù sa che Giuda lo tradisce e dirne il nome è come richiamarlo ad un vissuto comune, dirlo amico è metterlo davanti a ciò che non sa essere.

Si potrebbe indicare un quarto caso dell’uso di questo termine “amico” in Matteo 11,16, ma è problema di manoscritti in quanto alcuni riportano il più consueto “altri”(graficamente molto vicino), tradotto poi  “compagni”; comunque, anche qui  starebbe  ad indicare una lontananza, cioè l’incapacità di condividere la gioia o il lamento, di accogliere sia l’austero Giovanni sia il conviviale Gesù: una generazione che  non sa cosa vuole, non gusta né il lavorare con un padrone buono né un banchetto. Nello stesso contesto (Mt 11,19 e//Lc 7,34)  però Gesù è chiamato da Matteo “amico di  pubblicani e peccatori”  col termine positivo di philos (unica volta che Matteo lo usa): quindi lo  riserva  solo a Gesù e sappiamo che lo dice per esperienza di chiamata e risposta (cf Mt 9,9-13).

 

Direi strano il modo di Matteo di parlare dell’amicizia, se gli anni non mi avessero fatto accumulare esperienze che me lo fanno sentire tanto realistico: l’amicizia non è facile e spesso si colora di distanza e incomprensione, occorre assumere la fatica del padrone/re/Gesù che mettono insieme gratuità e giusta distanza, offrono relazione senza pretese. Occorre farne esperienza sulla propria pelle e dopo offrirla ad altri.

M piace inoltre collegare a questa osservazione  il fatto che è ancora Matteo a presentare tutta la difficoltà della correzione fraterna senza possibili sconti (cf Mt 18,15-20).

Anche le fratture amicali non sono sempre sanabili, le iniziative personali, anche generose e coraggiose, possono cadere nel vuoto: per riconciliarsi e correggersi reciprocamente bisogna desiderarlo e volerlo da ambedue le parti seriamente.

Il vangelo invita a relazioni umane luminose, ma ricorda che sono a caro prezzo: è più facile parlare di fraternità ed amicizia che viverla, per questo forse il Vangelo è così sobrio e ci rimanda allo stile di Gesù e alla condanna dello stile farisaico (cf per es  Mt 6,4;23,6 il falso amore di sé)