Con-vocati a vivere insieme nella pace

 

Può sembrare strano risalire al libro di Giosuè per farsi provocare al vivere insieme nella pace, dato che nella lettura cristiana questo libro biblico è messo da parte, perché pare trattare troppo di guerra, ma se vi si guarda dentro in profondità diverse sono le sorprese.

Prima di tutto va ricordato che il nome di Giosuè è lo stesso di Gesù in ebraico, e già questo può interrogare: un nome che rimanda all’idea di salvezza può non essere legato alla pace? Al suo ricordo, alla fine del libro, è legata la fedeltà di Israele e la sua conquista è nell’ottica “E la terra visse tranquilla, senza guerra” (11,23 cf 14,15), anche se in realtà resta molto territorio da occupare, quando ormai Giosuè è anziano (cf 13).

Giosuè  non può non sapere che, uscendo dall’ Egitto, Israele non solo si porta via oro e argento degli Egiziani, ma  “partì con loro una gran massa di gente promiscua” “gente raccogliticcia”(cf Es 3,21; 12,38 Num 11,4 ), oltre realisticamente ad esserci matrimoni misti (Lv24,10s). Sa che Mosè ha vissuto lontano dall’Egitto e da Israele, in  Madian, presso Ietro sacerdote di cui ha sposato una figlia, per il quale ha lavorato e per il quale conserverà sempre stima e amicizia (cf Es 18).

Giosuè è’ quindi abituato a non vedere per principio gli stranieri come nemici. D’altra parte il suo compagno e sostegno è quel Caleb che troviamo rappresentare la tribù di Giuda, ma il cui nome è sempre accompagnato da un patronimico che ne indica l’origine straniera (“figlio di Iefunne, il Kenizzita o Chenizeo”-cf Num 32,12-,popolo risalente più a Esaù che a Giacobbe-Israele).

La fedeltà di Caleb al Signore gli fa prendere l’iniziativa di difendere la promessa del Signore, di fronte agli altri esploratori della terra di Canaan (cf Num 13), ma anche rispettare la designazione di Giosuè come guida del popolo dopo Mosè. Tra i due, i soli della generazione uscita dall’Egitto a entrare nella Terra di Canaan, non c’è né invidia né sospetto, ma solo collaborazione nel portare avanti il compito affidato: è una amicizia leale come sarà poi quella tra Gionata e Davide.

Anche Giosuè, già Osea (altro nome che comunque richiama salvezza pur se senza il riferimento a Yhwh) figlio di Nun, è spesso ricordato con il patronimico che ricorda che è della tribù di Efraim e non di quella di Mosè, che lo aveva scelto liberamente, senza vincoli familiari o di tribù, come avveniva tra i nomadi e gli aveva dato il nome nuovo investendolo della missione..

Proprio questo sfondo rende non difficile a Giosuè accogliere Raab e la sua famiglia e poi  i Gabaoniti, per i quali deve affrontare una battaglia che, in realtà, è fatta dal Signore con una grandinata straordinaria in un giorno straordinariamente lungo, e in fondo cerca vie di convivenza con tutti i popoli che già abitavano la terra di Canaan, la cui conquista  è sempre incompiuta per cui Israele è chiamato a vivere con altri nella pace possibile, sempre da recuperare, anche tra le stesse tribù.

Il giovane condottiero che per l’intercessione di Mosè sconfigge Amalek e che, scendendo dal Sinai con Mosè, al rumore che viene dal campo ,subito pensa ad una battaglia (cf Es 17,8s; 32,17s) raggiunta la maturità, e la responsabilità di guidare il popolo è chiamato prima che a conquistare e distribuire la terra, alla consuetudine con il libro della legge, meditandolo giorno e notte (cf Gs 1), quindi è normale che veda  nella guerra con le armi, e nell’anatema, solo una estrema istanza contro i popoli che più fanno paura come gli Anakiti; per lo più meglio è mediare e creare legami (in fondo il dividere il territorio tra le tribù che formano un unico popolo lo favorisce, anche se non elimina tensioni che riaffiorano poi nel tempo).

Vediamo come Giosuè mette in atto la strategia dell’invio delle spie da Raab, in fondo per non perdere vite, come risolve la provocazione dei Gabaoniti, come affronti la sconfitta provocata da un fratello della tribù di Giuda che non ha rispettato l’anatema e ha preso per sé oggetti che spettavano al Signore: Giosuè esegue la condanna, ma dopo aver fatto penitenza lui e averlo chiamato “Figlio mio”, consapevole che probabilmente ogni israelita ha avuto la stessa tentazione, non si dissocia dal popolo come mai lo aveva fatto Mosè: la terra è dono del Signore che va rispettato pienamente.

Giosuè ha educato il popolo a far chiarezza prima di ricorrere alla violenza: lo si vede poi con l’equivoco sorto con le tribù della transgiordania che, rientrate nei loro territori, dopo aver dato il loro contributo alle altre, costruiscono un altare come segno di memoria e comunione che viene invece interpretato come gesto di rottura.

Giosuè è uomo che riduce  la violenza e non è poco! Non si può pretendere di più, proiettando nel passato i desideri a cui noi non sappiamo dare concretezza: è perdere la pienezza umana di quel momento e non saper realisticamente vedere quali passi poter fare noi e non volere la libertà di scelta  e di crescita che il Signore ci ha donato.

Le armi di Giosuè sono  spesso particolari: l’arca, le pietre, le trombe di corno, il grido di guerra: certo, c’è l’anatema (la traduzione “sterminio” rischia di non farcelo capire nella sua sostanza, ci evoca altro momento storico) del nemico che ha come sfondo la fedeltà e la santità del popolo; gli altri  popoli vanno scacciati, eliminati  con tutte le loro cose, perché pericolosi per la fedeltà al Signore di Israele che però ne paga il prezzo; per i tempi una guerra senza bottino e schiavi era pura perdita, il Signore stesso dovrà mitigare il suo comando, dopo l’episodio di Acan. La lingua ebraica non usa gli astratti per cui l’ anatema  finisce per avere la valenza di tutti gli elementi negativi, sintesi degli ostacoli che culture diverse potevano  opporre alla fedeltà di Israele per trascinarlo all’idolatria. La radicalità della lotta spirituale come la intendevano i padri forse ce lo fa capire: questi fatti militari fanno intravedere il combattimento implicito nell’essere veramente cristiani in un mondo che non lo è.

Resta che si parla di guerra santa e di anatema, ma occorre approfondirne il senso e il come: il conquistare il territorio è dare volto concreto alla promessa del Signore che resta il protagonista dell’impresa per cui una certa intransigenza  esprime questo, come spesso le minacce, le maledizioni, i guai nel linguaggio biblico: sono avvertimenti per non cadere, per avere una visione chiara della situazione. Noi oggi parleremo di diplomazia, dialogo, ma forse in esse mancano quella forza  chiarificatrice che fa cogliere da  quale .parte è la vita

Nella Bibbia c’è un non fermarsi al volto della guerra legata alle armi per andare invece  a cogliere dinamiche umane che possono creare ambiente di pace.  Dire guerra santa non vuol dire che è moralmente, eticamente  santa, non era questa l’idea di santità degli antichi, vi erano leggi di purità per il combattente come per gli addetti al culto, quasi ad indicare che la guerra è una sfera oltre l’umano. Il primato restava la vita, come poi si vede in direttive quali quella che chi aveva appena costruito una casa o piantato una vigna o non aveva sposata ancora la fidanzata non andava in battaglia fino a che non ne avesse  goduto (cf Dt 20,5s).

La vita di Giosue pare scorrere alla presenza del Signore non più con lo stare nella tenda, come ai tempi di Mosè, ma nello svolgere i suoi compiti di conquista e distribuzione della terra: in un certo senso dalla teofania presso Gerico per Giosuè tutta la terra a lui affidata è santa e per difendere tale santità deve curare il libro della legge, la fraternità, la comunione, la convivenza, mentre è il Signore stesso che scaccia gli altri popoli davanti a lui. Il coraggio di Giosuè è affidarsi a questa parola del Signore.

La lettera agli Ebrei si richiama a Giosuè quando parla del riposo, che possiamo, in fondo, considerare un sinonimo di pace, o meglio un seme di pace  che posto nella terra lentamente si può trasformare in germoglio. Il riposo  a cui lui introduce nella Terra Promessa  resta transitorio come il Sinai, la legge, il tempio stesso: il popolo di Israele è popolo pellegrinante vero il riposo di Dio. La generazione di Giosuè, uscita dall’Egitto non lo aveva perseguito per non aver ascoltato il Signore che si è adirato ma non ha ritratto la promessa; anche per coloro che entrano con Giosuè  il riposo resta promessa e non compimento, resta rimando ad un oltre come anche per noi; il vero riposo rimanda al Regno di Dio, .alla Gerusalemme celeste. Per tutti coloro che restano stranieri e pellegrini sulla terra, aspiranti  a una patria migliore, quella celeste, il Signore ha preparato una città, ci dice ancora la lettera gli Ebrei (cf Eb 11).

 

Questa precarietà  della pace e quindi della realizzazione della promessa non può stupirci oggi che  ancora i cristiani fanno guerra a cristiani, lasciandosi alle spalle ciò che li accomuna e prendendo sul serio solo ciò che li distingue e li divide. Siamo in fondo in attesa che avvenga almeno qualcosa di simile all’Assemblea di Sichem come preparazione alla riconciliazione globale di tutti i popoli della terra.  Il già e non ancora  permangono di secolo in secolo fino a che non ci saranno cieli e terra nuovi. Vivere nel rispetto delle proprie storie diverse già renderebbe il vivere in questa terra “riposo”, un riposo non definitivo, come non è definitiva la Pace con cui  l Risorto saluta i suoi, ma anticipazione rassicurante della definitiva vittoria sul male e la morte.

Non dimentichiamo che secondo la tradizione ebraica Giosuè è il primo libro dei profeti anteriori e che quindi è più una indicazione che una cronaca come rischiamo di leggerlo noi, dimenticandoci della lettura tipologica che avevano cara i Padri e che aiutava a cogliere in profondità la novità di Gesù di Nazaret.  Siamo talmente lontani dal suo messaggio che già attingere alla dura concretezza del libro di Giosuè ci farebbe ridimensionare tanti interventi.

Ultima cosa, ma in fondo la più essenziale,  a cui il libro di Giosuè ci richiama è che per contrastare la guerra per i credenti ci sono  le armi della liturgia  e della preghiera: la consonanza tra testi di Giosuè e salmi ce lo confermano.  Mai come oggi possiamo pregare con la consapevolezza che il Signore  ama la vita ma non la guerra

Signore disperdi i popoli che amano la guerra   Sl 68,31 (cf sl 46,10)

Il Signore è il Dio che stronca le guerre, ha posto il suo accampamento in mezzo al popolo, la sua tenda tra gli umani (cf Gdt 9,7;16,2).