Da Charles de Foucauld abbiamo imparato che, se per darsi al mondo intero bisogna accettare di rompere ogni ormeggio per lasciarsi “andare al largo”; non è tuttavia necessario che questo largo sia contenuto fra le mura d’un monastero. Può esistere nel recinto di pietre posate anche sulla sabbia; può esistere in una carovana africana; può esistere in una delle nostre case, in una delle nostre officine, in una scala che sale, in un autobus che prendiamo: il largo lo si trova accettando lo stretto, l’incessante clausura del prossimo immediato. Dare a ciascuno di coloro che avviciniamo il tutto d’una carità perfetta, lasciarsi incatenare da questa incessante e divorante dipendenza, vivere con naturalezza il discorso della montagna: è questa la porta del largo, porta stretta che s’apre alla carità universale» (M. Deibrél)

« Quando non si ha più niente da dare perché si è dato tutto, allora si diventa capaci di “veri doni”»… (P. Mazzolari)

 

La meraviglia di ogni credente

 

Alla radice e al centro della nostra fede c’è il mistero dell’Incarnazione, quel progetto di salvezza della Trinità per cui un volto di Dio si è fatto carne, si è fatto il Dio vicino, restando uno col Dio trascenderne, il Dio invisibile soffio creatore: ed è uno scandalo, «Per il fatto di essere limitato, situato, concretissimo, Gesù di Nazareth costituisce uno scandalo» (C. Palacio sj); ed è una novità «umano in questo modo solo Dio lo può essere» (L. Boff).
Siamo oltre le nostre possibilità di vivere l’esperienza umana, oltre le nostre possibilità di immaginarci il divino. Eppure il mistero dell’Incarnazione non è solo un evento storico del passato, è la meraviglia di ogni credente che si rende conto che, pur di fronte alla vastità del mondo e al trascorrere dei secoli, il Signore si prende cura di lui, sì proprio di lui, e sempre con lo stesso criterio di imprevedibilità e sconcerto; è la meraviglia di chi si rende conto che col battesimo è iniziata per lui un’avventura nuova, impercettibile, ma reale; Dio vuole essere presente in lui.
A noi è inevitabile aver bisogno di segni, l’Eucaristia, la Scrittura, l’icona, un bel panorama, un gesto di aiuto, ma di fatto la nostra fede deve crescere fino al punto che in qualsiasi situazione, anche la più povera di segni, sappiamo che il Signore si prende cura di noi. E il trascorrere della vita è in fondo questa spogliazione che i grandi amici di Dio sapevano e sanno anticipare nelle loro scelte radicali. Solo un cammino di fede «cosi» porta alla fraternità vera.

 

Fraternità, dono e segno del Regno di Dio

 

Alla fraternità troppo spesso pensiamo come ad un punto di partenza per camminare insieme, alleviandoci a vicenda la durezza del vivere in una società in cui le tensioni, le contraddizioni, sono sempre più forti. Alla fraternità troppo spesso pensiamo come a un mezzo per stare tra gli uomini quale esempio di valori, «segno di luce», quando invece il più delle volte possiamo solo metterci alla scuola di chi ci sta attorno.
E’ invece importante imparare a vivere certi valori, e la fraternità per prima, non come possesso, ma come ricerca umile e paziente o meglio ancora come una méta che solo può essere dono del Signore: solo allora anche la fraternità sarà segno del Regno di Dio che va intessendo le sue trame non senza il nostro impegno.
La fraternità è cosa difficile: tutti tendiamo a fare i figli o i padri, le figlie o le madri, a volte il servo/la serva, a volte lo sposo, la sposa, ma anche al vertice della sponsalità c’è il riscoprirsi fratello/sorella, quello che a noi costa, quello che mascheriamo, quello da cui ci difendiamo.
Il rapporto fraterno vero è senza possesso, senza appartenenze, senza orgoglio, senza menzogna, senza distinzioni di sorta, è rispettoso delle diversità, delle peculiarità di ciascuno, del ruolo, della missione di ciascuno, del «nome» che ciascuno ha ricevuto dal Signore che non si ripete mai!

 

Figli di uno stesso Padre

 

E’ il Signore l’unico riferimento in cui ci si ritrova fratelli. E’ la gratuità l’ambiente vitale di questo riconoscersi fratelli/sorelle, gratuità per la quale ora l’uno, ora l’altro sarà il maggiore, sarà il minore (è il Signore che fa crescere e non è detto che 1o faccia secondo i nostri schemi: età, cultura, titoli, appartenenze, punto cardinale, religione…) in un gioioso scambio di dare e ricevere, senza pretese, con semplicità.
Oggi ci si combatte per l’economia, per il prestigio, il predominio, per le diversità culturali nelle quali si fa rientrare la diversità di religione: ci sembra davvero troppo riconoscere che ancora facciamo guerre di religione, davvero troppo riconoscere che ancora vogliamo tirare Dio dalla nostra parte e che il nostro richiamo alla comune origine è menzognero.
Eppure, o ci si riconosce in verità fratelli davanti al Signore e allora gli altri motivi cadranno «per compassione» , «per tenerezza» o si ripete la storia di Caino e Abele, nella piccola come nella grande congerie delle genti.
Non per niente la Scrittura ci indica la rottura dei rapporti umani proprio con l’episodio che coinvolge i due primi fratelli, Caino e Abele. Il fatto come è narrato nella Scrittura è ben noto, allora mi fermo su una parte di un midrash (possiamo definirlo una rinarrazione libera del testo) su Genesi 4, «Caino disse ad Abele suo fratello: “Vieni e dividiamoci il mondo”. “Sì”, disse Abele. Caino allora propose: “Tu prendi i beni mobili e io le terre”. E così stabilirono che nessuno dei due avrebbe reclamato alcunché dall’altro. Abele cominciò a pascolare e Caino gli disse: “Ma questa terra sulla quale ti trovi è mia!” E Abele, allora: “Ma anche la lana di cui ti sei rivestito è mia!” E cosi l’uno diceva: “Spogliati!” e l’altro: “Vola!”.
In seguito a ciò, «Caino si alzò contro suo fratello». Cominciò a inseguirlo dal monte al piano e dal piano al monte, finché, afferratisi l’un l’altro, Abele ebbe la meglio su Caino che rimase sopraffatto. Allora Caino cominciò a gridare: “Abele, fratello mio, siamo noi due soli nel mondo, che cosa racconterai al babbo?”. A queste parole, Abele si impietosi e lo lasciò; ma Caino si alzò contro di lui e lo uccise», secondo quanto è scritto: «e si alzò Caino contro suo fratello»; e se «si alzò», vuoi dire che prima stava sotto di lui».
Quante riflessioni si possono fare!
Io voglio solo sottolineare che chi si appella alla comune paternità non è lo stesso che si impietosisce. E’ proprio quanto si vive nella storia personale e dei popoli: senza pietà, compassione, tenerezza l’appellarsi all’unico Padre, all’unico Dio non serve a creare fraternità, anzi. … è menzogna, è il male più difficile da smascherare perche si cela sotto parvenze di bene.

 

Fratelli/sorelle nella diversità

 

Il progetto di Dio ci fa fratelli/sorelle nella diversità, sì, nella diversità e questo, più ragionatori si è, più lo si rifiuta!
Eppure anche nella vita quotidiana non c’è uguaglianza senza diverso trattamento: non si deve dare una casa, un lavoro a tutti indistintamente, ma a chi non li ha già; non si può trattare allo stesso modo chi ha due gambe e chi ne ha una sola..
«II Padre vostro sa di cosa avete bisogno…» (Lc 12,30) e solo Lui, Padre nostro, prima ancora di noi. conosce il bisogno radicale del nostro cuore, là dove si gioca la nostra vera identità.
Certo i più elementari bisogni, insoddisfatti per tanti sulla terra, ci inchiodano alle nostre responsabilità – Dio opera non senza di noi – ma decidere solo su questo piano la fraternità sarebbe un tradire anche loro, perché, sempre e comunque, l’uomo non ha fame del solo pane materiale.
Anche così, sul piano delle cose, la diversità si fa provocazione, ma a noi urta ancora di più quando si tratta dello svolgimento di compiti, di possibilità, di missioni, di carismi.
Ma è ancora la fede che toglie l’invidia, il giudizio, il confronto, il troppo misurare e rende libero il cuore di contemplare la libertà creatrice di Dio Padre. Se vedremo in positivo le diversità frutto dell’opera di Dio, riusciremo a vedere in positivo anche le nostre, di noi chiamati a camminare vicini gli uni agli altri sulle strade del mondo.
E’ la fede che ci fa smettere di nientificare l’altro dentro di noi (quando anche non fuori) e ci insegna ad uscire da noi per incontrarlo nonostante resti nell’ esperienza concreta, storica la possibilità di non essere accolti, proprio come è capitato al Signore Gesù. Figlio di Dio (Gv 1,11).

Non è il successo il segno della fraternità autentica, incarnata, ma il gesto in sé,il fatto concreto in sé… la conformità al beneamato fratello Gesù, per rifarci al linguaggio e all’esempio di Charles de Foucauld. Questa è la condizione, la via alla fraternità, «La condizione è di permettere o di accettare che la nostra vita sia configurata,conformata a quella di Gesù» (C. Palacio). Si potrebbe arrivare paternalisticamente o servilmente a risolvere i problemi del mondo, a costruire una comunità, grande o piccola, nella pace: non è detto che tale impresa sarebbe segno del Regno di Dio; lo sono invece i gesti piccoli, gratuiti di fraternità degli ultimi, degli sconosciuti, forse gesti inconsapevoli di cuori aperti… La fraternità evangelica (altro sarebbe il discorso se si trattasse di quella di illuministica memoria con la quale forse a volte confondiamo le cose) è difficile, non basta volerla: richiede il cammino della sequela dietro al Signore Gesù che si è fatto nostro fratello per insegnarci a dire nella verità «Padre Nostro», richiede che sappiamo riconoscere che ci è stata data al caro prezzo della croce del Signore Gesù è che possiamo solo riceverla da Lui con preghiere e suppliche, richiede che, come Lui, sappiamo abbandonarci, affidarci, consegnarci nella fede al Padre, credendo nella sua presenza nei nostri fallimenti come era presente in quello di Gesù.

 

La fraternità, stile del cristiano unificato

 

La fraternità è lo stile della fede che si incarna nella realtà quotidiana.
La fraternità è lo stile della contemplazione che vede al di là del contingente, al di là delle apparenze, il disegno del Padre.
La fraternità è lo stile dell’intercessione che fa sua la volontà del Padre che tutti siano salvi.
La fraternità è lo stile del cristiano unificato, in cui contemplazione e azione sono tutt’uno nell’adesione al progetto del Padre su di lui.

La fraternità quindi dovrebbe essere una caratteristica ben evidente della vita consacrata nella quale si fa professione che Dio è il tutto della propria vita, «nella quale si dovrebbe sapere, per esperienza diretta, che questo Dio riempie di senso ogni istante della vita, ogni progetto» (A. Cencini).
Il rispondere alla stessa chiamata del Padre, pur nella peculiarità con cui Lui si rivolge a ciascuno, dovrebbe essere già in sé un vincolo fraterno fortissimo, ma la parabola del Padre buono (Lc 15,11ss) sta a ricordarci che non è scontato, anzi più si è vicini al Padre più è difficile essere fratelli… anche lì noi uomini troviamo ancora infiniti pretesti per creare gruppi contrapposti.
La fraternità, secondo il cuore di Dio, va oltre lo schierarsi dalla parte giusta (anche se è vero che Dio «abbatte i potenti e innalza gli umili», non sempre nel concreto storico sono così evidenti le parti), va oltre le varie appartenenze con tutta la sofferenza e solitudine che questo comporta (Gesù, fratello nostro, si è fatto semplicemente uno del suo popolo…).

 

Fraternità, comunione di fede

 

La fraternità certo non è incapacità di scelte, non è disimpegno verso gli ultimi (dai quali troppo spesso si va a esigere segni fraterni più che a mostrarne), certo non è estraniazione dalla vita comune di tutti gli uomini, ma è esserci dentro con le viscere di misericordia del nostro Dio che sa distinguere il male da chi se ne fa strumento, che mette a nudo le ferite, ma per guarirle; è essere dentro la vita, facendosi carico di tutto quello che è il mistero del cuore, della libertà dell’uomo, come ha fatto il beneamato fratello Gesù, fosse pure restando sulla breccia con la sola preghiera.
La vita consacrata più che distinguersi per strutture, abiti, stili di vita, come spesso si dà, dovrebbe farlo per il dialogo col Padre in Cristo Gesù, allora veramente sarebbe mediatrice di fraternità. Non posso dire di aver fatto di Dio il tutto della mia vita, di voler tutto riconsegnare al Padre, se non faccio mio il suo sguardo contemplativo che abbraccia tutti gli abissi di bene e di male di cui è capace l’uomo, lasciandomi coinvolgere dallo sguardo di Gesù che riscatta tutti i vuoti e ricrea dal profondo ogni creatura.
Nella Chiesa vi è una ricchezza immisurabile di impegno e servizio: occorre che vi rifioriscano, o meglio che tornino alla luce quei tesori di fraternità evangelica che non sono solo darsi una mano, ma sono, soprattutto e innanzi tutto, comunione di fede e significatività, esperienza di Dio e ragioni di vita, o più semplicemente che sia più evidente quella fraternità che è il riconoscersi nel profondo «poveri» , ma «preziosi» agli occhi di Dio Padre che in ognuno sa sempre ritrovare la perla preziosa che ha messo.
Siamo invitati: «Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9).
E la sua ricchezza era, è e sarà una comunione d’amore col Padre, con lo Spirito e tutti noi che è venuto a salvare. Ad e ssa ci apre la porta la fede in Cristo Gesù. Figlio di Dio.

Giuliana Babini da Jesus Caritas 49/1993