
Citazioni
La vita interiore è rientrare in sé stessi, non stare ripiegati su se stessi: è cammino!
una religione è il modo concreto di vivere una fede
la fede è un approccio alla vita, al mondo
“occorre trovare se stesso, non l’io dell’individuo egocentrico, ma il sé profondo della persona che vive con il mondo. C’ è un tesoro che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui lo puoi trovare ed è la dove ti trovi, lì tutto può divenire acqua viva che irriga l’anima e porta a compimento la tua vita” (cf Buber, ebreo, Il cammino dell’uomo, ma anche Rumi, mistico mussulmano).
“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” diceva la volpe al piccolo principe ( A. Sain-Exupery).
La religione si può vivere senza la fede, mentre la fede non si vive senza che abbia un risvolto visibile, fosse pure solo la propria vita quale è…. Siamo carne , siamo relazione, viviamo un luogo, una epoca storica, ecc.
Un rito è ciò che prepara il cuore: “è quello che fa un giorno diverso dagli altri, un’ora diversa dalle altre ore” (A. de Saint-Exupery )
La fede dice che nessuno può camminare al posto mio e che non posso camminare che in relazione.
Importanza di assumere liberi e liberanti l’alternativa o l’integrazione tra religione e fede.
“A volte mi sento proprio come una pattumiera; sono cosi torbida, piena di vanità, irrisolutezza, senso d’inferiorità. Ma in me c’è anche onestà, e un desiderio appassionato, quasi elementare di chiarezza e di armonia tra esterno e interno. A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza di secoli sublimata sugli scaffali lungo i muri, e con la vista che spazia su campi di grano - devono proprio essere campi di grano, e devono anche ondeggiare al vento. Lì vorrei sprofondarmi nei secoli, e in me stessa. E alla lunga troverei pace e chiarezza. Ma questo non è poi tanto difficile. E’ qui, ora, in questo luogo e in questo mondo, che devo trovare chiarezza e pace e equilibrio. Devo buttarmi e ributtarmi nella realtà, devo confrontarmi con tutto ciò che incontro sul mio cammino, devo accogliere e nutrire il mondo esterno col mio mondo interno e viceversa, ma è tutto terribilmente difficile e proprio per questo mi sento così oppressa.” (Etty Hilesum, Diario, 4 /10/41 p.53 ed. Adelphi)
“Voglio continuare a vivere pienamente…” (ivi, p. 57)
Dentro di me c’è una sorgente molto profonda.
E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo. M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé ....” (ivi, 26 agosto, p.60)
Giuliana Babini
RECENSIONI su ETTY HILLESUM
Edgarda Ferri
Un gomitolo aggrovigliato è il mio cuore.
Vita di Etty Hillesum.
La nave di Teseo editore, Milano 2017
“Un gomitolo aggrovigliato è il mio cuore "
Bellissima questa espressione posta come titolo di una vita di Etty Hillesum, dà ragione del punto di partenza del suo Diario e fa risaltare il cammino interiore che questa donna percorre e che tanti libri a lei dedicati cercano di scavare.
Possiamo dire che questo libro di Edgarda è una ottima introduzione al Diario in quanto non tace non solo gli eventi storici che lo contestualizzano, ma neppure quei risvolti disordinati di una vita che i primi lettori italiani, da una edizione ridotta del suo Diario, non potevano del tutto afferrare.
Solo il non tacere il lato oscuro aiuta a cogliere in profondità l’evoluzione interiore che Etty vive, evoluzione rapida per il poco tempo che le è concesso con il suo maestro che le viene a mancare nel momento più duro di certe scelte decisive, e poi nella vita stessa, che precipita verso la sua conclusione.
Solo uno sguardo realistico aiuta a leggere un Diario come uno sguardo sull’uomo e su Dio, come rivelazione dell’abisso di tenebra e luce che sempre si intrecciano, senza una valutazione morale: questo è importante per capire ciò che accade al di là di principi che fanno mantenere una distanza che impedisce la comprensione di quanto Etty scrive e vive.
Sarei tentata di dire che un libro così,, più che essere letto prima del Diario, andrebbe letto insieme: certe riflessioni luminose di Etty che io stessa rilancio spesso in facebook, possono essere banalizzate nella loro verità, se si dimentica il contesto, il travaglio storico e personale da cui emergono. Trasmettere amore alla vita comunque, dopo aver sperimentato il non senso, l’assurdità del male, conosciuto l’abisso del cuore dell’uomo non è la stessa cosa del farlo in un momento radioso della vita. Accada quello che accade, per Etty, anche nei momenti più duri e oscuri di epifania del male, basta un raggio di sole, un albero, un fiore, una nube, una poesia, un suono, pur tra filo spinato e sbarre e fango, per sentire dentro di sé pulsare la forza della vita e rendere grazie per ogni attimo di essa.
Etty, consapevole della crescita interiore che vive e difende “fino alla morte”, non la tiene per sé, ma la condivide con chi comprende e con chi non capisce, ma non oltre i grovigli del proprio cuore: aveva potuto allontanarsi da Spier, pur sapendo che poteva non rivederlo,: perché la loro comunione era ormai oltre le vicende umane, aveva potuto allontanarsi da Han che le voleva teneramente bene senza eccessive pretese: queste e altre amicizie non le impedivano di aver pienamente accolto che “l’amore per tutti è meglio dell’amore per una persona sola”, “bisognava prendere su di sé il dolore del mondo”, ma di fronte alla sua famiglia Etty si sa debole ed ancora confusa: è splendido quel suo partire non con loro ma a vagoni di distanza, nella libertà di chi ha messo in gioco la vita per amore dell’umanità intera.
Questo libro ne rende ragione ed è quindi capace di far cogliere le pagine del Diario con uno spessore nuovo, certo forse non senza l’angoscia di pensare che ciò che Ettty vive e dice sta ancora avvenendo in qualche parte del mondo, anche se chi crede nel Dio della vita può dire: è avvenuto, avviene, avverrà, ma il cavallo bianco (la capacità di luce e di bene che c’è nel cuore dell’uomo), l’Agnello vincerà (cf. Apocalisse).
“Una cosa è certa: non potrò mai scrivere le cose
come la vita le ha scritto per me”
Etty 22 Settembre 42
Siamo partiti cantando è un insieme di brevi allusioni al racconto della vita di Etty , in uno stile poetico di rimandi e richiami a frammenti realistici della sua vita, messo in bocca a lei stessa, con splendidi disegni e l’aiuto di parole-immagini, forse non senza un certo disordine: questo dà una leggerezza al libro quasi impensabile dato il contesto a cui rimanda, eppure rende appieno il senso positivo sulla vita che Etty conserva fino alla fine.
Il suo sentire “bella” la vita si traduce, in questo libro, in bellezza di veste tipografica, che davvero comunica che si può partire cantando, anche quando l’esito del viaggio è il distacco da tutto e da tutti nel mistero di ciò che sarà
Matteo Corradini Siamo partiti cantando Etty Hillesum, un treno, dieci canzoni.
Illustrazioni di Vittoria Facchini rue Ballu edizioni Palermo 2017 p. 126.
INDICE
Addio.
Canzone dell’albero
Canzone del ritratto
Canzone del mare
Canzone bella e stupida
Canzone delle mani
Canzone della brughiera
Canzone della camicia da notte
Canzone della luna
Canzone della matita
Canzone della casa
Preghiera.
“Quel giorno era così bello che non serviva arrampicarsi per sentirsi parte del cielo. Tornata a casa, ho preso un quaderno e ho cominciato a scrivere il mio diario più importante. Me lo aveva suggerito Julius: sapeva che mi avrebbe fatto bene come una ciliegia rubata o un panorama visto dall’ultimo ramo. O come un bacio.”
Vita di Etty Hillesum. La nave di Teseo editore, Milano 2017
Possiamo dire che questo libro di Edgarda è una ottima introduzione al Diario in quanto non tace non solo gli eventi storici che lo contestualizzano, ma neppure quei risvolti disordinati di una vita che i primi lettori italiani, da una edizione ridotta del suo Diario, non potevano del tutto afferrare.
Solo il non tacere il lato oscuro aiuta a cogliere in profondità l’evoluzione interiore che Etty vive, evoluzione rapida per il poco tempo che le è concesso con il suo maestro che le viene a mancare nel momento più duro di certe scelte decisive, e poi nella vita stessa, che precipita verso la sua conclusione.
Solo uno sguardo realistico aiuta a leggere un Diario come uno sguardo sull’uomo e su Dio, come rivelazione dell’abisso di tenebra e luce che sempre si intrecciano, senza una valutazione morale: questo è importante per capire ciò che accade al di là di principi che fanno mantenere una distanza che impedisce la comprensione di quanto Etty scrive e vive.
Sarei tentata di dire che un libro così,, più che essere letto prima del Diario, andrebbe letto insieme: certe riflessioni luminose di Etty che io stessa rilancio spesso in facebook, possono essere banalizzate nella loro verità, se si dimentica il contesto, il travaglio storico e personale da cui emergono. Trasmettere amore alla vita comunque, dopo aver sperimentato il non senso, l’assurdità del male, conosciuto l’abisso del cuore dell’uomo non è la stessa cosa del farlo in un momento radioso della vita. Accada quello che accade, per Etty, anche nei momenti più duri e oscuri di epifania del male, basta un raggio di sole, un albero, un fiore, una nube, una poesia, un suono, pur tra filo spinato e sbarre e fango, per sentire dentro di sé pulsare la forza della vita e rendere grazie per ogni attimo di essa.
Etty, consapevole della crescita interiore che vive e difende “fino alla morte”, non la tiene per sé, ma la condivide con chi comprende e con chi non capisce, ma non oltre i grovigli del proprio cuore: aveva potuto allontanarsi da Spier, pur sapendo che poteva non rivederlo,: perché la loro comunione era ormai oltre le vicende umane, aveva potuto allontanarsi da Han che le voleva teneramente bene senza eccessive pretese: queste e altre amicizie non le impedivano di aver pienamente accolto che “l’amore per tutti è meglio dell’amore per una persona sola”, “bisognava prendere su di sé il dolore del mondo”, ma di fronte alla sua famiglia Etty si sa debole ed ancora confusa: è splendido quel suo partire non con loro ma a vagoni di distanza, nella libertà di chi ha messo in gioco la vita per amore dell’umanità intera.
Questo libro ne rende ragione ed è quindi capace di far cogliere le pagine del Diario con uno spessore nuovo, certo forse non senza l’angoscia di pensare che ciò che Ettty vive e dice sta ancora avvenendo in qualche parte del mondo, anche se chi crede nel Dio della vita può dire: è avvenuto, avviene, avverrà, ma il cavallo bianco (la capacità di luce e di bene che c’è nel cuore dell’uomo), l’Agnello vincerà (cf. Apocalisse).
“Una cosa è certa: non potrò mai scrivere le cose
come la vita le ha scritto per me”
Etty 22 Settembre 42
Siamo partiti cantando è un insieme di brevi allusioni al racconto della vita di Etty , in uno stile poetico di rimandi e richiami a frammenti realistici della sua vita, messo in bocca a lei stessa, con splendidi disegni e l’aiuto di parole-immagini, forse non senza un certo disordine: questo dà una leggerezza al libro quasi impensabile dato il contesto a cui rimanda, eppure rende appieno il senso positivo sulla vita che Etty conserva fino alla fine. Il suo sentire “bella” la vita si traduce, in questo libro, in bellezza di veste tipografica, che davvero comunica che si può partire cantando, anche quando l’esito del viaggio è il distacco da tutto e da tutti nel mistero di ciò che sarà
Matteo Corradini Siamo partiti cantando Etty Hillesum, un treno, dieci canzoni.
Illustrazioni di Vittoria Facchini rue Ballu edizioni Palermo 2017 p. 126.
INDICE
Addio.
Canzone dell’albero
Canzone del ritratto
Canzone del mare
Canzone bella e stupida
Canzone delle mani
Canzone della brughiera
Canzone della camicia da notte
Canzone della luna
Canzone della matita
Canzone della casa
Preghiera.
“Quel giorno era così bello che non serviva arrampicarsi per sentirsi parte del cielo. Tornata a casa, ho preso un quaderno e ho cominciato a scrivere il mio diario più importante. Me lo aveva suggerito Julius: sapeva che mi avrebbe fatto bene come una ciliegia rubata o un panorama visto dall’ultimo ramo. O come un bacio.”
Note su T. Merton
in occasione della presentazione del libro:
Maurizio Renzini, Thomas Merton Una spiritualità inquieta
, Nerbini 2017
L’attualità di T. Merton (1915-68) è fuori discussione anche perché troppi eventi di allora richiamano quelli di oggi, ma vorrei sottolineare che il rapporto tra il monachesimo e la realtà concreta, storica, quotidiana, quel suo scoprirsi membro di una unica umanità senza esenzioni e privilegi (la caduta quindi dell’illusione che una professione monastica rendesse creature “altre”) era emerso nella sua problematicità anche con Charles de Foucauld che muore quando Merton nasce, quindi pienamente una generazione prima. Anche fr. Charles aveva avuto una giovinezza segnata da cose molto simili a quelle di Merton (il restare orfani, la vita disordinata ecc) ed è passato attraverso la trappa o meglio le trappe, in Francia e ad Akbes in Siria, e ne esce per essere più uomo tra gli uomini, fratello universale, ma come dentro resta monaco !.
Tale problematicità era sentita forse in modo diffuso, ovviamente non da tutti, ma nella storia cristiana si potrebbero trovare tanti segni; certo Merton gli dà voce in modo intenso e particolare; una problematicità che dura tuttora non solo nel monachesimo ma in tutta la vita consacrata, visibile o nascosta nel quotidiano: il rapporto Chiesa- Mondo lanciato dal Concilio è un cammino in atto sotto tutti gli aspetti, non certo esaurito.
Ma la capacità di cogliere i problemi del mondo, la vastità delle relazioni, il voler cogliere una fraternità al di là delle differenze religiose sono proprio frutto della vita da monaco capace di risalire alle sorgenti, all’essenziale dietro aspetti rituali ed istituzionali, che nella storia avevano preso il sopravvento, non solo non ne fanno una vocazione laicale se non nel senso originale per il quale il monaco non era necessariamente prete, ma viceversa indica ai laici impegnati nelle realtà di questo mondo che devono essere interiormente più monaci per capire e osare di più, per raggiungere come credenti profondità e coerenza: La Pira insegna!
C’è nella tradizione cristiana orientale quello che si chiama monachesimo interiore che rende bene come sono i cristiani tutti a dover attingere alle fonti monastiche essenziali per una testimonianza coerente o per lo meno per vivere con profondità il proprio posto nel mondo (il padre spirituale di Dostoevskij non gli chiedeva di smettere di giocare, ma di finire i romanzi che erano il suo compito….).
Prima di toccare un secondo punto vorrei ricordare che negli stessi anni un processo similare viveva anche Matta el Meschin (1919-2006) , il monaco copto ortodosso che restaura a Scete (Egitto)il monastero di San Macario; anche lui scrive moltissimo per riattualizzare la tradizione ed è pienamente immerso nella storia del suo popolo e scrive note sul potere politico e quello religioso attuali anche per noi. (Anche i consigli di fr Charles al capo Tuareg non è che non vadano bene anche oggi!).
Ci sono cose essenziali che maturano nel tempo e danno frutti diversi in luoghi diversi: il valore di una persona come Merton è farsi eco anche per gli altri di questo e non l’esclusività. Più si contestualizza, più si coglie l’unicum di una persona, sia nella sua fragilità che nella luce che gli irradia da dentro.
Secondo punto: Questo sguardo nuovo, che diventa anche stile nuovo di vita, emerge da persone che hanno desiderato, gustato la solitudine concretamente almeno in un arco della loro vita, ma interiormente forse costantemente.
La fuga autentica dei padri, dei monaci e monache di ogni tempo, dal mondo, è porsi al cuore del mondo, è andare a ciò che veramente conta che è ritrovato proprio in una sana distanza dal proprio particolare tessuto di vita; quella che chiamiamo fuga non è perdere il contatto con i propri simili, ma viverne in profondità i legami in quanto creature della stessa pasta e in ricerca di ciò che possiamo anche chiamare felicità.
La solitudine autentica di cui ci parla Merton in varie sue opere (Pensieri nella solitudine e ancor più nel, credo postumo, “Un vivere alternativo”) non si oppone a fraternità o ad autentica amicizia, queste sono chiamate a custodire solitudine, silenzio, preghiera, lo stesso scrivere (questo fa emergere quanto si ha nelle profondità!) del fratello/sorella, dell’amico/a perché sono i luoghi in cui la propria vocazione acquista spessore. La fraternità, per essere tale, non può non essere intessuta col peso delle diversità, con quel tanto di solitudine che esse implicano, e anche la vocazione più estrema di eremitismo è per i fratelli o non è.
Potremmo qui evocare personaggi che hanno vissuto tipi diversi di deserto e solitudine, ma che finiscono per essere pienamente consonanti con questi monaci significativi, penso ad Etty Hillesum, a Bonhoeffer, a Nicu Steinhardt (vive il deserto delle carceri romene), ecc.
Quel margine di solitudine che è poi proprio di ogni persona, se vissuto bene, rende più umani e più cristiani, più capaci di cogliere in profondità eventi e situazioni.
Per questo io amo cogliere in figure come Merton il profondo nesso tra la loro ricerca spirituale e la loro lettura del mondo, al di là della chiamata testimoniale che alla fine forse è propria di Merton, almeno nella sua vasta portata, ed è significativo che questa conviva con l’esperienza del limite della propria problematica affettiva che si rivela in pieno nel suo, non certo raro, innamorarsi da cinquantenne di una giovane, al cui bene forse solo a fatica arriva poi a pensare (altrimenti si sarebbe fermato prima, ricordandosi di quanto aveva esperito e detto della solitudine): riscegliere la propria vocazione quando si intravede altra strada è potenziarla, e forse senza questo evento non avremmo avuto il Merton asiatico.
La fecondità della relazione uomo – donna, al di là della consumazione fisica, è tutta , tutta ancora da scavare!
Anche se è poco di competenza sua, l’attualità di Merton sta anche nel richiamare una ricerca a riguardo di una vita consacrata, divenuta negli uomini troppo tutt’uno col sacerdozio, e comunque legata talmente a servizi che rischiano di non essere più espressione di tale ricerca e di non offrire più ai cristiani in genere quella testimonianza di profondità, di attesa del Regno, di unificazione di cui hanno bisogno.
Non credo che sia casuale che a riavvicinarci a certe figure monastiche siano oggi uomini come l’autore del libro su citato di altra competenza, più scientifica e sociale che ecclesiale: se si vive la Chiesa come recinto, viene meno il respirare in largo e non si incontrano i nuovi ricercatori delle vie dello Spirito, i sognatori di una vita per il Signore in novità di vita e di cuore, con orizzonte il mondo.
Giuliana Babini
, Nerbini 2017
Tale problematicità era sentita forse in modo diffuso, ovviamente non da tutti, ma nella storia cristiana si potrebbero trovare tanti segni; certo Merton gli dà voce in modo intenso e particolare; una problematicità che dura tuttora non solo nel monachesimo ma in tutta la vita consacrata, visibile o nascosta nel quotidiano: il rapporto Chiesa- Mondo lanciato dal Concilio è un cammino in atto sotto tutti gli aspetti, non certo esaurito.
Ma la capacità di cogliere i problemi del mondo, la vastità delle relazioni, il voler cogliere una fraternità al di là delle differenze religiose sono proprio frutto della vita da monaco capace di risalire alle sorgenti, all’essenziale dietro aspetti rituali ed istituzionali, che nella storia avevano preso il sopravvento, non solo non ne fanno una vocazione laicale se non nel senso originale per il quale il monaco non era necessariamente prete, ma viceversa indica ai laici impegnati nelle realtà di questo mondo che devono essere interiormente più monaci per capire e osare di più, per raggiungere come credenti profondità e coerenza: La Pira insegna!
C’è nella tradizione cristiana orientale quello che si chiama monachesimo interiore che rende bene come sono i cristiani tutti a dover attingere alle fonti monastiche essenziali per una testimonianza coerente o per lo meno per vivere con profondità il proprio posto nel mondo (il padre spirituale di Dostoevskij non gli chiedeva di smettere di giocare, ma di finire i romanzi che erano il suo compito….).
Prima di toccare un secondo punto vorrei ricordare che negli stessi anni un processo similare viveva anche Matta el Meschin (1919-2006) , il monaco copto ortodosso che restaura a Scete (Egitto)il monastero di San Macario; anche lui scrive moltissimo per riattualizzare la tradizione ed è pienamente immerso nella storia del suo popolo e scrive note sul potere politico e quello religioso attuali anche per noi. (Anche i consigli di fr Charles al capo Tuareg non è che non vadano bene anche oggi!). Ci sono cose essenziali che maturano nel tempo e danno frutti diversi in luoghi diversi: il valore di una persona come Merton è farsi eco anche per gli altri di questo e non l’esclusività. Più si contestualizza, più si coglie l’unicum di una persona, sia nella sua fragilità che nella luce che gli irradia da dentro.
Secondo punto: Questo sguardo nuovo, che diventa anche stile nuovo di vita, emerge da persone che hanno desiderato, gustato la solitudine concretamente almeno in un arco della loro vita, ma interiormente forse costantemente.
La fuga autentica dei padri, dei monaci e monache di ogni tempo, dal mondo, è porsi al cuore del mondo, è andare a ciò che veramente conta che è ritrovato proprio in una sana distanza dal proprio particolare tessuto di vita; quella che chiamiamo fuga non è perdere il contatto con i propri simili, ma viverne in profondità i legami in quanto creature della stessa pasta e in ricerca di ciò che possiamo anche chiamare felicità.
La solitudine autentica di cui ci parla Merton in varie sue opere (Pensieri nella solitudine e ancor più nel, credo postumo, “Un vivere alternativo”) non si oppone a fraternità o ad autentica amicizia, queste sono chiamate a custodire solitudine, silenzio, preghiera, lo stesso scrivere (questo fa emergere quanto si ha nelle profondità!) del fratello/sorella, dell’amico/a perché sono i luoghi in cui la propria vocazione acquista spessore. La fraternità, per essere tale, non può non essere intessuta col peso delle diversità, con quel tanto di solitudine che esse implicano, e anche la vocazione più estrema di eremitismo è per i fratelli o non è. Potremmo qui evocare personaggi che hanno vissuto tipi diversi di deserto e solitudine, ma che finiscono per essere pienamente consonanti con questi monaci significativi, penso ad Etty Hillesum, a Bonhoeffer, a Nicu Steinhardt (vive il deserto delle carceri romene), ecc.
Quel margine di solitudine che è poi proprio di ogni persona, se vissuto bene, rende più umani e più cristiani, più capaci di cogliere in profondità eventi e situazioni. Per questo io amo cogliere in figure come Merton il profondo nesso tra la loro ricerca spirituale e la loro lettura del mondo, al di là della chiamata testimoniale che alla fine forse è propria di Merton, almeno nella sua vasta portata, ed è significativo che questa conviva con l’esperienza del limite della propria problematica affettiva che si rivela in pieno nel suo, non certo raro, innamorarsi da cinquantenne di una giovane, al cui bene forse solo a fatica arriva poi a pensare (altrimenti si sarebbe fermato prima, ricordandosi di quanto aveva esperito e detto della solitudine): riscegliere la propria vocazione quando si intravede altra strada è potenziarla, e forse senza questo evento non avremmo avuto il Merton asiatico.
La fecondità della relazione uomo – donna, al di là della consumazione fisica, è tutta , tutta ancora da scavare! Anche se è poco di competenza sua, l’attualità di Merton sta anche nel richiamare una ricerca a riguardo di una vita consacrata, divenuta negli uomini troppo tutt’uno col sacerdozio, e comunque legata talmente a servizi che rischiano di non essere più espressione di tale ricerca e di non offrire più ai cristiani in genere quella testimonianza di profondità, di attesa del Regno, di unificazione di cui hanno bisogno.
Non credo che sia casuale che a riavvicinarci a certe figure monastiche siano oggi uomini come l’autore del libro su citato di altra competenza, più scientifica e sociale che ecclesiale: se si vive la Chiesa come recinto, viene meno il respirare in largo e non si incontrano i nuovi ricercatori delle vie dello Spirito, i sognatori di una vita per il Signore in novità di vita e di cuore, con orizzonte il mondo.
Giuliana Babini
Recensione dell’ottobre 97 (ne seguirà un'altra dopo la rilettura della nuova edizione)
" La verità ci rende liberi e nello stesso tempo ci libera non
solo dalla schiavitù del passato, ma anche dal giogo (che non
è lieve) e dal peso (che non è buono) delle stupidaggini, della
suscettibilità, delle ferite dell'amor proprio"
Nicu Steinhardt, Diario della felicità,
Il Mulino, Bologna, 1995 / Rediviva edizioni Milano 2017
La felicità a cui si allude il titolo è quella di divenire cristiani e questo non certo per una
semplificazione di vita , viste le circostanze in cui vive l' autore in Romania (1912-1989), prima emarginato come ebreo e poi sempre più per il suo rifiuto ad ogni collaborazione col regime comunista, e quindi costretto a vivere di stenti in umili lavori fino a che non è processato e imprigionato.
In tali circostanze, ricerca, ecumenismo, confronto tra religioni si fanno nel quotidiano intessersi di relazioni, che in alcuni anni si fanno "costrette", gomito a gomito e vivono più della 'santità' (cioè della capacità dell'uomo di trasparire 1'Amore, credente o non credente che sia) che di questioni teoriche.
Il Diario è insieme quello del dissidente romeno, quello di un uomo dalla vastissima cultura e memoria e infine quello del “convertito” e quindi diventa testimonianza di una “ricerca” interiore profonda. L'autore non solo si rifiuta di aderire al comunismo ma non se ne va; può svolge solo lavori precari, finché non finisce in prigione come tanti suoi amici intellettuali. , In prigione porta rapidamente a maturazione la sua ricerca religiosa, il suo desiderio di essere cristiano e cristiano ortodosso.
Il suo battesimo in cella, però, avviene in nome dell'ecumenismo per la presenza di due preti greco-cattolici accanto al monaco ortodosso, così come in altri momenti si trova a pregare con 'preti romano-cattolici, uniati, ortodossi, pastori luterani e calvinisti, tutti insieme, con una fratellanza ecumenica di una bellezza unica, pur nella consapevolezza di essere di fronte a una 'pseudoliturgia', oppure proprio per essa capaci di coglierne splendore, intensità, condivisione al di là delle misere apparenze.
Uscito dal carcere, riprende l'attività letteraria e contemporaneamente approda al monachesimo per guardare come "da lontano” il mondo che amava e che è innanzi tutto la Romania stessa.
Il Diario, scritto dopo la prigionia, segue una spinta puramente interiore, con un esito disordinato per il lettore, ma che rende la complessità della vita.
Ne emerge una forte sottolineatura della capacità umanizzante della cultura e della fede che porta ad essere "vivi" e "umani" anche, o proprio, nelle condizioni più disumane e disumanizzanti.
In un mondo di comodità e di tante possibilità esterne si perde il valore di "portar dentro" tanta storia dell'umanità, tanto di religione, letteratura, arte, musica, mentre solo percependone la portata esse possono davvero incidere nella vita e trasformarla.
La propria vita si costruisce a confronto con gli amici e i "grandi" assimilati e ricordati, per questo il Diario è un intreccio di citazioni degli uni e degli altri.
A un certo puto dice: "Ricordiamoci bene che il cristianesimo non è una semplice scuola di onestà, pulizia e giustizia o una spiegazione nobile e razionale della vita (Emil Cioran: la teologia ci svela i misteri meglio della zoologia); o un elevato codice di comportamento (confucianesimo, scintoismo); o una terapia d'evasione (stoicismo, yoga, zen) o una valanga di domande (taoismo); o un atto di sottomissione al Solo (giudaismo, islamismo). Esso è di più e altro: è l’insegnamento di Cristo, cioè dell'amore e della forza salvatrice del perdono. Nessuna religione concepisce altrimenti il perdono dei peccati se non attraverso il cammino logico della compensazione (nel bramanesimo e nel buddismo, mediante samsara, la teoria è spinta sino alle estreme conseguenze); solo nella religione in cui Dio non riceve offerte, ma si offre Egli stesso, è potuta apparire la speranza della cancellazione totale e immediata dei peccati mediante l'atto più sconvolgente e più anticalcolato - dunque anche il più scandaloso".
Questo è il tipo di confronto che qua e là compare sempre a sottolineare la peculiarità del cristianesimo e a sottolineare il tema che, forse, sta più a cuore all'autore, quello del perdono, vertice del messaggio evangelico, il perdono tra uomini, quello del Signore, sempre considerato costitutivo della crescita interiore e del poter fondare relazioni intramontabili.
L'autore della sua esperienza in carcere può dire: "una cosa è certa: sono guarito per sempre dalle arrabbiature e dai litigi" .
Non manca l'impegno politico (in senso lato) , emerge dallo stesso approdare dell'autore a un cristianesimo che esige fede senza abdicare all'intelligenza, - "Il Signore ama l'innocenza non l’'imbecillità'” -, senza abdicare alla libertà ( dice, in sintesi, che se si eliminano libertà e mistero si hanno stupidità e tirannia), per giungere a fare il bene con animo purificato, ad avere il coraggio o la pazienza, secondo le circostanze della vita o meglio a seconda del "terreno di lotta su cui dobbiamo affrontare il male e la provocazione scelta dall’Avversario." . La vita è una lotta, è molto evidente nella vita dell’autore, ma questo rende più significativo il suo dirci che da credenti è una "felice" lotta.
Giuliana Babini
" La verità ci rende liberi e nello stesso tempo ci libera non
solo dalla schiavitù del passato, ma anche dal giogo (che non è lieve) e dal peso (che non è buono) delle stupidaggini, della
suscettibilità, delle ferite dell'amor proprio"
In tali circostanze, ricerca, ecumenismo, confronto tra religioni si fanno nel quotidiano intessersi di relazioni, che in alcuni anni si fanno "costrette", gomito a gomito e vivono più della 'santità' (cioè della capacità dell'uomo di trasparire 1'Amore, credente o non credente che sia) che di questioni teoriche.
Il Diario è insieme quello del dissidente romeno, quello di un uomo dalla vastissima cultura e memoria e infine quello del “convertito” e quindi diventa testimonianza di una “ricerca” interiore profonda. L'autore non solo si rifiuta di aderire al comunismo ma non se ne va; può svolge solo lavori precari, finché non finisce in prigione come tanti suoi amici intellettuali. , In prigione porta rapidamente a maturazione la sua ricerca religiosa, il suo desiderio di essere cristiano e cristiano ortodosso.
Il suo battesimo in cella, però, avviene in nome dell'ecumenismo per la presenza di due preti greco-cattolici accanto al monaco ortodosso, così come in altri momenti si trova a pregare con 'preti romano-cattolici, uniati, ortodossi, pastori luterani e calvinisti, tutti insieme, con una fratellanza ecumenica di una bellezza unica, pur nella consapevolezza di essere di fronte a una 'pseudoliturgia', oppure proprio per essa capaci di coglierne splendore, intensità, condivisione al di là delle misere apparenze. Uscito dal carcere, riprende l'attività letteraria e contemporaneamente approda al monachesimo per guardare come "da lontano” il mondo che amava e che è innanzi tutto la Romania stessa.
Il Diario, scritto dopo la prigionia, segue una spinta puramente interiore, con un esito disordinato per il lettore, ma che rende la complessità della vita. Ne emerge una forte sottolineatura della capacità umanizzante della cultura e della fede che porta ad essere "vivi" e "umani" anche, o proprio, nelle condizioni più disumane e disumanizzanti.
In un mondo di comodità e di tante possibilità esterne si perde il valore di "portar dentro" tanta storia dell'umanità, tanto di religione, letteratura, arte, musica, mentre solo percependone la portata esse possono davvero incidere nella vita e trasformarla.
La propria vita si costruisce a confronto con gli amici e i "grandi" assimilati e ricordati, per questo il Diario è un intreccio di citazioni degli uni e degli altri. A un certo puto dice: "Ricordiamoci bene che il cristianesimo non è una semplice scuola di onestà, pulizia e giustizia o una spiegazione nobile e razionale della vita (Emil Cioran: la teologia ci svela i misteri meglio della zoologia); o un elevato codice di comportamento (confucianesimo, scintoismo); o una terapia d'evasione (stoicismo, yoga, zen) o una valanga di domande (taoismo); o un atto di sottomissione al Solo (giudaismo, islamismo). Esso è di più e altro: è l’insegnamento di Cristo, cioè dell'amore e della forza salvatrice del perdono. Nessuna religione concepisce altrimenti il perdono dei peccati se non attraverso il cammino logico della compensazione (nel bramanesimo e nel buddismo, mediante samsara, la teoria è spinta sino alle estreme conseguenze); solo nella religione in cui Dio non riceve offerte, ma si offre Egli stesso, è potuta apparire la speranza della cancellazione totale e immediata dei peccati mediante l'atto più sconvolgente e più anticalcolato - dunque anche il più scandaloso".
Questo è il tipo di confronto che qua e là compare sempre a sottolineare la peculiarità del cristianesimo e a sottolineare il tema che, forse, sta più a cuore all'autore, quello del perdono, vertice del messaggio evangelico, il perdono tra uomini, quello del Signore, sempre considerato costitutivo della crescita interiore e del poter fondare relazioni intramontabili.
L'autore della sua esperienza in carcere può dire: "una cosa è certa: sono guarito per sempre dalle arrabbiature e dai litigi" . Non manca l'impegno politico (in senso lato) , emerge dallo stesso approdare dell'autore a un cristianesimo che esige fede senza abdicare all'intelligenza, - "Il Signore ama l'innocenza non l’'imbecillità'” -, senza abdicare alla libertà ( dice, in sintesi, che se si eliminano libertà e mistero si hanno stupidità e tirannia), per giungere a fare il bene con animo purificato, ad avere il coraggio o la pazienza, secondo le circostanze della vita o meglio a seconda del "terreno di lotta su cui dobbiamo affrontare il male e la provocazione scelta dall’Avversario." . La vita è una lotta, è molto evidente nella vita dell’autore, ma questo rende più significativo il suo dirci che da credenti è una "felice" lotta.
Giuliana Babini