LA “PIENEZZA” DELLA PENTECOSTE

 

Noi siamo abituati a pensare alla Pentecoste come ad un inizio, l’inizio della Chiesa, ma in realtà essa è la maturazione, il compimento di quanto la precede, e in questo compimento ogni credente è chiamato a scoprirsi già immerso, perché lo Spirito è presente in ogni luogo e tutto riempie come potenza dall’alto (cfr. Lc 24,49).
Già la festa ebraica di Pentecoste o “festa delle Settimane” era tale: come festa agricola celebrava, nel ringraziamento e nella gioia, il raccolto che volgeva al termine, e da qui è nato il legame con il libro di Rut che in tale festa viene tuttora letto: la vicenda che vi si narra è collocata in questo periodo e ricorda il diritto dei poveri e degli stranieri – e Rut è tale – di spigolare quanto restava sui campi (cfr. Rut 1,22; 2,2); quando poi la festa assume un significato storico-salvifico, essa viene collegata all’alleanza sinaitica, al dono della Torah, senza la quale la liberazione dal faraone, dall’Egitto, sarebbe incompleta, non sarebbe diventata autentico cammino di liberazione dei cuori, un cammino che richiede un tempo pieno, denso, forte di interiorizzazione.
L’alleanza del Signore con il suo popolo ha i connotati dell’ alleanza nuziale, e di nozze, quasi dono inatteso per la adesione al Dio di Israele, si parla alla fine del libro di Rut e di nozze che hanno come compimento l’arrivo di un consolatore.
In questa linea dobbiamo leggere anche la Pentecoste cristiana: il tempo pasquale ha come primo giorno la Pasqua e come ultimo la Pentecoste, quasi fosse un unico giorno di festa più che memoria di eventi in successione: è tempo di ricordo continuo della Resurrezione, di gioia (non si digiuna e neppure ci si inginocchia nella tradizione dei Padri).
La Pasqua è evento puntuale, accaduto in un preciso momento, ma la salvezza da esso scaturita, perché diventi effettiva, permei i destinatari anche più immediati, richiede tempo, il tempo dell’interiorizzazione, della maturazione, della trasfigurazione, e sette settimane indicano appunto un tempo pieno che si apre all’attesa escatologica (il Giubileo ce lo dovrebbe aver ben ricordato!).
Senza la Torah il popolo di Israele avrebbe dimenticato ben presto l’esperienza dell’esodo. Sappiamo bene anche noi quanto sia difficile trasmettere da una generazione all’altra il senso, la sapienza, la profondità di un vissuto storico, anche così tremendo che sembra indelebile! Occorre fissare l’esperienza in principi, comportamenti, scelte, motivazioni, solo così il Signore può far sì che il popolo che si è scelto gli corrisponda (o meglio tenti di corrispondere), restando fedele al suo unico Signore in ogni giorno della propria vita.
E così Gesù Cristo è morto ed è risorto per noi, per la salvezza di tutti gli uomini, ma gli stessi apostoli, che con lui sono stati, hanno bisogno che il Signore dia loro un dono che renda possibile interiorizzare, ricordare, trasmettere, testimoniare, vivere insieme quanto hanno ricevuto.
Gesù lo sa bene perciò annuncia loro “Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (Gv 14,26).
E non sono solo i padri orientali a dire che il fine di tutta l’opera della nostra salvezza è che i credenti siano pieni di Spirito Santo, se nella Regola di S. Chiara troviamo che le sorelle devono “desiderare sopra ogni cosa di avere lo Spirito Santo e la sua santa operazione” (Regola X, cfr. Regola bollata X).
Ma la Pentecoste è compimento non solo in questo senso verticale di profondità e altezza, che rende continuo il passaggio dal cielo alla terra e viceversa, ma anche in senso orizzontale di abbraccio all’universo intero, proprio come viene indicato nell’icona che ha in alto il cielo aperto e in basso la figura regale simbolica del Cosmo, nelle tenebre, ma in attesa dell’annuncio a tutta l’umanità, figurato questo dal suo portare un lenzuolo bianco su cui spesso sono 12 rotoli.
Certo ogni compimento nella storia della salvezza, prima della fine, è sempre un già e non ancora: già in Rut abbiamo la straniera che diviene esemplare perché, potremmo dire noi, condotta dallo Spirito nella sua vicenda luminosa, entra nella storia della salvezza che sembrava esclusiva di Israele e ci entra così a pieno titolo da figurare nella genealogia del Messia (cfr. Mt 1); già Israele matura lungo la sua storia la consapevolezza che il dono della Torah gli è stato fatto per divenire segno per le genti; e così l’evento di Pentecoste come ci è ricordato negli Atti non poteva che mostrare il fuoco/luce che trasforma i presenti e ratificare quella apertura a tutti che Gesù Cristo aveva testimoniato nella sua vita: eppure tutto resta solo segno di quella pienezza di Chiesa/Corpo di Cristo che sarà la Gerusalemme celeste.
Quando il Signore discese ai tempi della torre di Babele (cfr. Gn 11,5) agli uomini pieni di orgoglio venne meno la capacità di comunicare e furono costretti alla dispersione su tutta la terra; quando il Signore discese ai tempi di Gesù (Gv 1,11) all’umanità nell’ oscurità, provata dal vaglio della storia, si riapre la possibilità di comunicare e di essere una cosa sola nella fede nel Signore Gesù Risorto (cfr. Gv 17,11)
Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù“, dirà l’ebreo Paolo (GaI 3,28; cfr. 1 Cor 12,13). Questo evento di comunione è centrale nell’icona, e sottende la presenza di Padre, Figlio e Spirito Santo (in Oriente la festa di Pentecoste coincide con quella della Trinità!), presenza che resta tale sia nella rappresentazione classica con al centro il posto vuoto che sottolinea il “non ancora” e l’attesa della seconda venuta del Signore, sia in quella più letterale (cfr. At 1,14) che pone nel centro Maria e sottolinea il “già”: Maria non è altro che figura di come dovrebbe essere la Chiesa, tutta piena dello Spirito Santo, tutta luminosa e infatti, di solito, tali icone sono più invase di luce di quelle che hanno il posto vuoto.
Se però quanto succede nel mondo e nel nostro quotidiano sembra smentire questa capacità di comunicazione e di comunione nella diversità, l’icona ci apre alla speranza e all’attesa: siamo ancora ai tempi dell’annuncio; l’icona non ci mette davanti la cronaca ma la realtà ben più piena del simbolo: in essa non troviamo solo gli apostoli in senso stretto, c’è Paolo e ci sono i quattro evangelisti ad indicare la sostanza dell’ annuncio (col libro) e ci sono gli evangelizzatori ( con il rotolo ).
Se noi, ancora lontani da essere nuove creature riplasmate dal fuoco dello Spirito, ci dobbiamo riconoscere accanto alla figura del re nell’ oscurità, siamo dall’icona fortemente invitati a lasciarci raggiungere dalla luce purificatrice del fuoco/vento dello Spirito e a spostarci, in quel semicerchio per partecipare all’ opera di annuncio che il Signore ha affidato ai suoi, quasi come si è invitati a spostarci dalla navata di una chiesa attorno alla tavola dove si consuma la partecipazione al banchetto di Comunione.

Giuliana Babini ( in Icona parola preghiera Fraternità della luce 2001